Combatto la nostalgia guardandoci negli occhi –

Combatto la nostalgia guardandoci negli occhi. 

Scorro le nostre fotografie, le compongo, ripasso la geografia di noi e sorrido. Sorrido. 

Possibile ed impossibile, lontano e vicino, simile e diverso: tutto ciò non ha più senso. Ha senso il mio cuore che batte forte ogni volta che bussi all’uscio dei miei pensieri, ogni volta che compari sullo schermo del mio telefono, ogni volta che sei vicino a me. Mi fa compagnia il ticchettìo di un orologio: il tempo scorre, tu sei più lontano e più vicino, noi esistiamo davvero.

Combatto la nostalgia pensando noi, la cosa più inaspettatamente bella di tutte.

Di quella volta che tremavo.

Ricordo il tremore.

Tremavo come una foglia, attribuendo colpe al vento, all’autunno, alla pietra della panchina dove ero seduta. Abbassavo lo sguardo, strizzavo gli occhi, mi allontanavo dal presente, tutto pur di non ammettere che tremavo perché avevo paura.
Quella paura che ti stringe e ti afferra lì in mezzo, tra lo stomaco e le viscere. Ti stritola tanto da farti trattenere il respiro e mancare il fiato. La paura delle “grandi occasioni”, quella che temi e allo stesso tempo ti affascina perché è preludio di un salto, un salto nel vuoto.
Io non salto mai. La mia goffaggine mi riserva l’onore di inciampare anche mentre cammino per una strada piana, un salto è decisamente troppo. Troppe le variabili, troppo il rischio.
Ecco, io nemmeno rischio mai. Non senza una bella lista di pro e contro di gommapiuma pronti ad attutire ogni colpo. Fare e disfare, fare e disfare tutto da sola.
Tremavo, ricordo bene che tremavo.
Nella mia testa si affollavano mille “e se…?”, frasi incompiute il cui unico scopo era fare confusione, confusione e ancora confusione.

Eppure, in un soffio: “…io ho paura.”.
Non c’erano pro e contro, non c’era logica, non c’era una scelta razionale.
In un solo respiro. “Anch’io.”
Non ero più sola.
E ho saltato.

UniversiTrip.

Considera la necessità di compiere una scelta e le difficoltà che questa produce. Aggiungici la ricerca cerebrale e febbrile di ogni singolo possibile elemento utile. Mescolalo con la voglia di viaggiare e con il bisogno di farsi stupire dai luoghi. Tutto ciò al giusto tempo per poter cambiare idea. Cambiare idea sui luoghi, sui corsi, sulle strade, sul futuro.

In questa specie di cous cous misto si possono scoprire moltissime cose e giusto per non farvi credere che io sia sempre depressa e riflessiva bla bla bla vi sottoporrò un piccolo elenco.

  • Se dovete prendere un treno con Cristina, considerate che lei sarà sempre in ritardo. Dunque armatevi del vostro sorriso più convincente e andare dal Capo treno. Se sarete abbastanza convincenti o fortunati, esso ritarderà di ben 7 minuti la partenza del treno per consentire di partire. (E poi ci si chiede come è possibile che i treni siano sempre in ritardo.)
  • Milano è bella. E’ bella soprattutto quando c’è il sole. E’ bella quando puoi perderti tra le viuzze del centro. E’ bella quando arrivi in piazza del Duomo e segui i confini della chiesa disegnati dal cielo azzurro. E’ bella negli occhi dei turisti che fanno le fotografie alla Galleria Vittorio Emanuele. E’ bella nelle file infinite di negozi. E’ bella a Parco Sempione quando cercando di riposare ti trovi ad ascoltare i discorsi della coppia di rastoni più improbabili di questa terra perché ascoltano Avril Lavigne e Call me maybe a tutto volume. E’ bella quando in mezzo alla strada compare un vecchio tram oppure quando scopri un palazzo antico tra quelli fatti di vetrate.
  • Tutti hanno uno smartphone e lo usano continuamente. Sarà una strana psicosi, ma secondo me tutti stavano twittando qualcosa. Sentivo la presenza nell’aria.
  • Ho superato la prova del mio primo sushi egregiamente. Sono molto fiera di me. Diventerà una nuova droga. E’ una certezza.
  • Italotreno è il futuro. E’ la concorrenza, è wifi libero perfettamente funzionante, è la pace. E’ oddio. Vi prego, riportatemi su quel treno!
  • Bologna è magica. Arrivi in stazione e lo senti. Senti che cambia tutto. Cambia la gente. Magari è soltanto una mia strana suggestione, ma è come se le fatiche si annullassero e rimanesse soltanto un po’ di tempo per sorridere a caso e proseguire il viaggio. Chissà quando ci rivedremo, Bologna cara.
  • Non prendete mai gli Intercity. Sembra di stare su una barca. E ho detto tutto.
  • I romagnoli sono esattamente come si dice: accento fantastico, modo di fare apertissimo, battuta e sorriso pronto. Splendido. Piadine tutta la vita. Anche questo punto direi che non ha bisogno di essere commentato. Prendetevi del tempo per pensare ad una piadina e mangiatela con il pensiero. Sognate, sognate che fa bene sognare.
  • Stellina di plauso ai bagni delle stazioni. Se c’è una cosa su di me che effettivamente non si sa (e forse a nessuno interessa neanche in questo momento, ma tant’è.) è che ho un particolare feeling con le stazioni dei treni. Ho provato molteplici bar, ma da quando ho scoperto le macchinette del caffè con il caffè della Lavazza dentro non c’è storia. Ho provato tutte le opzioni e vincono, tutte. Soprattutto ti salvano in qualsiasi situazione di disagio e impediscono che tu perda il treno mentre cerchi disperatamente un tavolino dove bere il tuo caffè normale in tazzina. No, eliminato, macchinette tutta la vita. Altro locale delle stazione su cui ormai ho una certa esperienza sono i Servizi della toilette. Nettamente migliori rispetto a quelli dei treni. Nota di merito particolare a quelli di Bologna e Mestre che sono stati rimessi a nuovo. Da un lato, lo svantaggio è che ora costano, ma il vantaggio è che sono davvero lustri che ti potresti quasi rotolare sul pavimento senza temere di prendere qualche assurda malattia infettiva. Forse il rischio lo corri lo stesso, ma consideratela una licenza poetica inserita per rendere meglio il concetto. Dunque promozione a pieni voti per caffè, bar e servizi.

Potrei continuare ancora, ma avrò pietà di voi lettori. Mi limiterò ad affermare che in 48 ore ho preso : 1 FrecciaBianca, 1 Intercity, 2 Regionali Veloci, 1 Regionale lento, 1 Italotreno, 2 Autobus, 1 Tram, N metropolitane per un totale di un numero troppo grande di km perché io lo possa calcolare.

A questo punto vi chiederete ragionevolmente “Ma a questo punto, avrà deciso cosa fare della sua vita?”. Volete sapere la risposta? Volete saperla davvero?

Ecco. No, non ve lo dirò.

Un sandalo rotto racconta.

Sabato sera, Udine centro. Persone che lentamente passeggiano tra le vie, osservano, chiaccherano, si perdono e afferrano quella piccola e sola occasione di dimenticare la settimana, gli impegni, i pensieri. C’è musica nell’aria: quella martellante dei bar che cerca di attirare avventori, quella forte delle bande che si ritrovano in piazza Libertà, quella dell’orchestra di Morricone che rifinisce il programma in Giardin grande.

Una ragazza che corre tra la gente, facendo lo slalom. Inspiegabilmente di corsa e totalmente fuori luogo, letteralmente. Corre apparentemente senza meta finché non si blocca. Di colpo.

Un sandalo.

Mi si è rotto un sandalo e allora devo frenare la mia parabola. Mi fermo e mi siedo su un marciapiede accanto alla roggia, perché anche Udine sa offrire qualche piccolo angolo davvero bello nella sua semplicità.

Osservo desolata la mia scarpa ormai rotta. Rotta, finita come la stagione. Penso a quello che ho fatto subire a quelle povere scarpe.

I temporali padovani quando nulla era abbastanza forte da tenermi in casa, l’infinita strada sempre uguale tra la casa e il centro, avanti e indietro, giorno e notte, più e più volte al giorno.

I concerti, i festival quando chiunque fosse saggio avrebbe messo delle scarpe da ginnastica. Le sagre, un po’ dappertutto, con quei poveri sandali è stato anche scalato il forte di Osoppo. Scalato magari è una parola grossa, ma pur sempre si trattava di una salita, l’erba, qualche pietra e un temporale.

Giornate di lavoro sempre di corsa rincorrendo spettatori e spettacoli con il solo impegno di stare in piedi, in bilico, in equilibrio senza perdere mai il giusto sorriso e il giusto chiaccherìo.

Giri in macchina, parole notturne. Discussioni, giochi salti. Gelati tanti gelati. E aperitivi tanti aperitivi. Non per forza in questo ordine.

Balli sulla spiaggia, passeggiate sui sassi, gite al fiume, rievocazioni medievali. Nulla ho risparmiato, neanche un millimetro delle suole.

Seduta su un angolo di marciapiede, osservo ancora il mio sandalo rotto. Provo a cercare una soluzione, ma una soluzione non c’è.

C’è solo che l’estate è finita. E che ho davanti a me la prova di quanto è stata viva. Osservate le scarpe delle persone. Chi ha scarpe che non sanno consumarsi, sempre perfette e lustre, tiene forse i propri piedi e la propria vita chiusa in una boccia di vetro, in una casa sicura e stabile.

Una scarpa rotta, invece, ne ha di storie da raccontare.

Ed io adoro ascoltare.

 

Tempo di fine estate e tempi verbali.

Tempo di fine estate.


Il sole inizia a tramontare prima ed addolcisce la forza dei suoi raggi e, così, ti adula fino a farti pensare che se fosse sempre così sarebbe bello se fosse estate per sempre.

Verrebbe voglia di fermare il tempo. Sospenderlo. Lasciarlo lì un po’ in mezzo al nulla. Una sensazione di vuoto incredibilmente familiare in cui non accade nulla. Non accade assolutamente nulla, sì ho scritto nulla. N u l l a. Paura?

Qua non si tratterebbe dell’illusione di prolungare un momento perfetto, abbiamo eliminato le stupide illusioni che hanno addirittura un cartello, con tanto di freccia rossa puntata addosso, con su scritto “Hey! Sono una Stupida Illusione!”. E non sarebbe nemmeno il caso di un inane crogiolìo nella tristezza, un po’ depresso un po’ romantico che non porterebbe in alcun luogo se non in un pantano un po’ fuori stagione.

Ci vorrebbe un pulsante “Pause” in cui io stessa verrei fermata. Non mi interesserebbe poi così tanto proseguire la mia strada se tutto intorno è fermo. Nessuna azione, nessuna passione. Nessuna attesa, nessun umore.
Sarebbe poi naturale ripassare sullo stesso pulsante; riprenderebbe tutto esattamente dove era stato fermato. Con gli stessi piccoli problemi, con le stesse piccole soddisfazioni, con le sfide e le prove. Con i cambiamenti e con qualche sparuta certezza. Sarebbe ancora lì tutto il bello da vivere che aspetta. Non è neanche vero che aspetta, semplicemente sta al suo posto lasciando che tempo e strade portino avanti.

Se solo ci fossero dei momenti in cui sentirmi meno bene, allora sarebbe più facile. Invece la facilità, evidentemente, non mi interessa e se c’è una matassa da ingarbugliare, la mia goffaggine ci arriva ben prima del mio presunto cervello con la sua logica non lineare.

Sarebbe più facile, dicevo, ma qua ci sono troppi condizionali e troppi periodi ipotetici.

Dove pensiamo di andare con la sola bella grammatica italiana e i suoi tempi verbali?

All’inizio era la neve.

Perdiamo di vista così tante persone. Sono importanti nella nostra vita per un periodo e poi se ne vanno, ci si perde di vista. Come è naturale.

Ogni tanto ci ripensi: si è perso qualcosa che era bello, ma non ti passa neanche per la testa che quel brandello di te che non si appartiene più possa essere incredibilmente felice o profondamente triste. Quel brandello che è una persona con cui hai percorso un pezzo di strada.

Questa volta è stato un pezzo di strada molto strano, di cui soltanto noi siamo in qualche modo custodi e che entrambi abbiamo ormai imparato a ricordare in maniera sempre più sbiadita.
Abbiamo lasciato andare tutto perché era giusto così. Certi rapporti disegnano una parabola quasi perfetta con un inizio leggero, una salita faticosa, un apice che ti toglie il fiato ed una morbida discesa fino alla terra. Una parabola che assomiglia incredibilmente ad una montagna. Ogni fatica trova il suo senso nel panorama che trovi alla cima e quando sei a terra, quando tutto è finito ti resta un senso di soddisfazione perché ciò che è passato dentro ai tuoi occhi non se ne andrà più. Perché hai imparato tanto. Hai imparato che a volte basta lanciare un sasso in un lago calmo perché le increspature arrivino a sfiorare ogni riva.
Non ci pensi che quella persona con cui hai scalato quella bella montagna e lanciato quel sasso potrebbe non esserci più. Per fortuna ancora non è così, ma c’è mancato poco. Davvero troppo poco, questa volta, per non pensarci.

Ti tieni stretto il ricordo ed il ricordo è immortale. Così diventa immortale anche quella bella persona che ha saputo darti tanto e che ora non è più parte delle tue giornate. Non è parte della tua vita, ma è parte di te. È parte di me, ancora e sempre.

L’immortalità del ricordo si scontra con la volubilità dell’uomo.

Eppure potrebbe accadere di tutto. E potresti non saperlo mai.

Un fottuto percorso ad ostacoli.

La gimcana tra le paure.

Paura di sbagliare.

Paura di non vedere.

Paura di fraintendere.

Paura di illudere.

Paura di essere cattivi.

Paura di spaventare.

Paura di essere sulla cattiva strada.

Paura di nascondere.

Paura di mostrare.

Paura di stare male di testa.

Paura di stare male di pancia.

Paura del dolore e basta.

Paura della felicità.

Paura di crederci troppo.

Paura di non crederci abbastanza, di nuovo.

Paura dei ritorni.

Paura di aprire porte che devono restare chiuse.

Paure di non seguire i consigli sensati.

Paura di perdere il controllo.

Paura di non farcela.

Paura di fallire.

Paura di riuscire. E poi?

Paura della pesantezza.

Paura della leggerezza.

Ci muoviamo costantemente tra tutto ciò. In punta di piedi, senza distrarci. Ogni tanto sembra tutto diverso, sembra che tutto vada bene da solo. Che i pezzi del puzzle si compongano. Per un attimo scorgiamo l’armonia ed è facile, troppo facile, dimenticare tutto il resto.

Forse dovrei solo imparare l’oblio.

A me basta aprire un minuscolo varco perché tutto mi travolga e mi paralizzi.

(Così non va bene. Non va bene adesso. Non andava bene prima. Non andrà bene mai. Non posso essere così fragile. Non così tanto.)

Momento bianco.

Accasciata sul mio letto padovano, osservo la pace attorno a me.

I miei cuscini ai piedi del letto, i colori di cui mi sono circondata. Giallo, rosso, verde, azzurro. Colori vivi, scelti per aiutarmi a sorridere anche nei giorni in cui la nebbia impedisce di vedere al di là di qualche metro.

L’unica musica è quella della strada che entra dalla porta finestra, la musica del rincorrersi di automobili, biciclette, pedoni ed esseri animati in genere oltre il palazzo vicino.

Computer sulle ginocchia, un pomeriggio d’estate. Una di quelle giornate incredibilmente belle. Calde, serene, avvolgenti. Quelle in cui ti perdi a guardare il cielo e ad inseguire le scie lasciate dagli aerei che disegnano arabeschi bianchi sul celeste più perfetto che si possa immaginare.

Mi fermo in questa bolla fatta di bianco e colori e respiro. Sospendo ogni pensiero, ogni impegno, ogni prospettiva e mi fermo qui. In questo frammento di presente in cui mi trovo e arraffo una manciata di equilibrio in un tempo che non può essere equilibrato.

Non sono a “ieri” quando questa casa era casa mia, in cui ero una studentessa dell’Università degli studi di Padova, in cui la mia vita si snodava tra via del Santo, le aule studio, le piazze e il ghetto, il Verdi e il Pio X, la gelateria Romana e le passeggiate lungo gli argini.

Non sono a “domani” quando casa sarà di nuovo, sebbene soltanto per qualche mese, un posto solo, in cui il mio rifugio tornerà ad essere la mia stanza con il soffitto color cielo, il mio risveglio le colline e le montagne in lontananza, la mia preoccupazione fare la gimcana tra le indicazioni ostinate dei miei genitori e la mia attitudine all’indipendenza.

Sospesa tra la bellezza di una sfida ancora del tutto oscura da intraprendere e la malinconia di cui soltanto i congedi sono capaci.

Non è quello che mancherà, non è quello che sarà. È adesso e il suo essere così un momento bianco. Un momento bianco in cui ancora tutto è da scrivere, ma che mi permette di esitare un momento prima di appoggiare la penna sul foglio.

Ora fuori passerà qualcuno urlando, oppure la vicina di casa accenderà la televisione e tornerà tutto normale. Torneranno le incombenze, gli impegni ancora da rincorrere, le scadenze burocratiche da agguantare. Torneranno le ricerche, le uscite, i colloqui, perché in verità di cose da fare ce ne sono ancora parecchie, prima tra tutte una bella discussione.

Quello che finisce è il mio tempo stabilmente qui. Quello che finisce è il mio tempo di chiamare casa questo piccolo angolo di mondo.

Da mesi mi dico “non voglio, ma se capitasse..”. Ecco, appunto. È capitato. Dunque, facciamoci trovare pronti e appoggiamo la penna sul foglio per iniziare a scriverne il seguito.

Cose che mi mancheranno, I.

Che io sia una persona malinconica prima del tempo è qualcosa di risaputo.

Quindi non stupirà nessuno come io stia vivendo quest’ultimo mese padovano in un insieme disordinato di studio e di appiglio ad angoli di “casa” e di “vita” che non lo saranno più.

Ci sono tante cose che mi mancheranno. Cose che non dimenticherò.

Irene ed io, sempre a piedi. Lei perché vive in una zona talmente brutta che non ha senso neanche tenere una bici, io perché me l’hanno rubata talmente spesso che ho scandito il mio tempo tra camminate e pedalate, equamente.
Tornando dall’università, sempre la stessa strada, sempre dritta fino al bivio dove ci separiamo.
Crocevia sempre intasato di pedoni e ciclisti.
Quel bivio è stato testimone di infiammate discussioni, di sogni sempre più grandi, di condivisioni su un mondo migliore, di coraggio di dire le cose ad alta voce, di politica tanta politica vera, di illusioni e speranza. Ci ha viste crescere.

Mi mancherà arrivare in quel piccolo pezzo di Padova e trovare, insieme ad Irene, un senso a tutto quanto e la speranza, viva, che qualcosa si può cambiare. Che possiamo essere il cambiamento che vogliamo e sogniamo.
Semplicemente.